Cosa ci insegna la vicenda di Cambridge Analytica in relazione alla nostra Privacy? E’ questa la domanda che riecheggia ormai da qualche giorno e la risposta sembra essere la solita, “se il servizio è gratuito, allora il prodotto sei tu”. Vero, ma fino ad certo punto, nel senso che questa vicenda ci dice che ormai i nostri Dati sono moneta di scambio.
La vicenda di Cambridge Analytica, o scandalo se preferite, cosa ci ha insegnato? Questa è una bella domanda ed è quella che riecheggia ormai da qualche giorno. A quanto pare la risposta che sappiamo dare è la solita: “se il servizio è gratuito, allora il prodotto sei tu“. Una risposta che, alla luce della vicenda, potrebbe non essere più sufficiente a spiegare cosa sia successo e soprattutto, l’insegnamento che la vicenda stessa ci lascia. Per fare un veloce riassunto, ormai qualche settimana fa Facebook ha rivelato di essere a conoscenza dal 2015 del fatto che uno sviluppatore, Aleksandr Kogan, avesse condiviso dati di utenti della piattaforma con la società Cambridge Analytica. In totale violazione dell’accordo con Facebook e in totale violazione della privacy degli utenti. Le stime riportano che i dati sottratti riguardano quelli di 87 milioni milioni di persone, circa 240 mila anche di italiani.
Lo scandalo nasce dal fatto che Facebook ammette di sapere da tre anni che una società era entrata in possesso dei dati di decine di milioni di utenti senza intervenire, anzi. Facebook dirà poi che si era limitata a fidarsi del fatto che la società avesse provveduto, come promesso, alla cancellazione dei dati sottratti. E neanche in questo caso Facebook ha effettuato un controllo. Qualcosa di inammissibile.
Ma fermiamoci un attimo a riflettere su come questi dati sono stati sottratti. Siamo partiti dalla risposta, alla nostra domanda iniziale, che il prodotto siamo noi, in quanto utilizziamo un servizio gratuito. Potrebbe essere che adesso questo concetto sia leggermente cambiato, nel senso che adesso i nostri dati sono diventati una vera e propria moneta di scambio. Abbiamo, nel corso del tempo, modificato il ragionamento. Perchè questa affermazione? Semplice, perchè una ricerca del 2016 aveva rilevato che il 20% degli utenti, tra i 18 e i 54 anni, sarebbe stato disposto a condividere più informazioni private se fossero pagati o se avesse ricevuto uno sconto su un servizio. E’ lecito pensare che ad oggi questa percentuale potrebbe essere addirittura più alta?
La risposta potrebbe essere di sì. Ma torniamo allo scandalo Cambridge Analytica, sapete tutti che i dati delle decine di milioni di utenti sono stati ottenuti attraverso un’applicazione dal nome “This Is Your Digital Life”. Bene, in quel caso gli utenti che hanno partecipato al gioco che offriva l’app hanno ricevuto un compenso di 3/4 dollari. Ecco cosa intendevamo prima quando dicevamo che oggi i nostri dati sono moneta di scambio, e siamo addirittura capaci di scambiarli per pochi dollari.
Questa ragionamento trova anche conferma nel fatto che i dati della prima trimestrale di Facebook dimostrano che da questa vicenda la società fondata e guidata da Mark Zuckerberg non ha subito alcuna conseguenza, anzi! I profitti in tre mesi sono stati di 12 miliardi di dollari e gli utenti sono cresciuti, soprattutto a livello giornaliero: 2,2 miliardi di utenti globali e 1,44 miliardi quelli che usano Facebook ogni giorno. La vicenda non ha cambiato le nostre abitudini, nonostante il grande fenomeno del #deletefacebook. Forse, come ha detto ieri il CFO di Facebook, David Wehner, se dovesse registrarsi un calo degli utenti nei prossimi tre mesi, la causa non sarà da addebitare a Cambridge Analytica, ma alla GDPR.
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Facebook non è l’unica piattaforma che possiede dei nostri dati. Basti pensare alle piattaforme e alle applicazioni che usiamo, a Google (che forse è quello che possiede molti più dati che ci riguardano). Abbiamo distribuito i nostri dati un po’ ovunque in maniera, più o meno consapevole. Anzi no, spesso in modo del tutto inconsapevole.
Siamo adesso entrati in una fase in cui le aziende sono alla ricerca dei nostri dati, questo lo sappiamo. Sapere sempre più informazioni degli utenti permette loro di attivare attività di advertising sempre più mirate, con la possibilità di soddisfare i nostri bisogni e le nostre esigenze in modo sempre più accurato, e mirato, appunto.
Ma il caso Cambridge Analytica, oltre ad affermarci il fatto che oggi i nostri dati sono moneta di scambio, ci insegna anche che dobbiamo essere sempre più consapevoli dei dati che condividiamo. Dobbiamo essere sempre più consapevoli di quello che facciamo. Consapevoli significa responsabili, dobbiamo essere informati su quelle che potrebbero essere le conseguenze di una determinata azione e chiederci se quella stessa azione possa essere per noi a “zero rischi”. Chiediamoci anche se davvero i nostri dati oggi valgano 3 o 4 dollari. Davvero siamo disposti a cedere parte delle nostre informazioni per pochi euro/dollari? E quale sarebbe il valore aggiunto che ne otterremmo?
Ecco, questa era solo una breve riflessione per prendere coscienza del fatto che da oggi dobbiamo avere bene a mente che i nostri dati sono la vera moneta di scambio e che in futuro potrebbero esserci altri casi Cambridge Analytica.
In ultimo, sarebbe bene sempre leggere l’informativa della privacy dei servizi che utilizziamo, specialmente con gli aggiornamenti che molte aziende stanno apportando in vista dell’imminente GDPR. E’ vero la tecnologia e il digitale offrono tante opportunità, ma dedichiamo un momento (forse anche di più) nel valutare la convenienza nel condividere i nostri dati personali. E infine, fare attenzione alle app che scarichiamo, molte di esse non solo non servono ma non le aprirete più di 2 volte nel ciclo di vista del vostro smartphone.