Il Cyberstalking è un tema sempre più di attualità e, purtroppo, non più così raro. E di fronte a questo fenomeno crescente, la legge attuale ancora non lo contempla. In mancanza, interviene la Cassazione. Sarebbe il caso che in Italia si cominciasse ad emanare una legge ad hoc.
Il cyberstalking – ovvero lo stalking caratterizzato dall’utilizzo delle nuove tecnologie quali la posta elettronica, la chat, la messaggistica istantanea, i social network, per molestare o perseguitare la vittima – è un fenomeno ormai non più così raro. Eppure l’art. 612 – bis c.p. non contempla questa ipotesi di reato (il comma 2 parla, genericamente, di ‘mezzi informatici o telematici’). Ecco che, allora, interviene la Corte di Cassazione la quale, con la sentenza n. 36894 del 11.09.2015, torna nuovamente ad occuparsi dell’argomento.
Il caso
La fattispecie è la seguente: l’imputato, condannato in primo e in secondo grado per il delitto di atti persecutori, propone ricorso presso la Corte di Cassazione cercando di “minimizzare” la condotta posta in essere nei confronti della vittima e ottenere l’annullamento della sentenza impugnata. Il caso è piuttosto classico: due giovani hanno una relazione sentimentale e la donna rimane incinta. La relazione finisce e l’ex fidanzato non si rassegna, minacciando, perseguitando e ponendo in essere atti violenti nei confronti della donna. La particolarità sta nel fatto che, per essere più ‘efficace’, l’uomo crea profili falsi, a nome della vittima, sui social network frequentati da maniaci sessuali, i quali cominciano a contattare quest’ultima, credendola disponibile per i loro interessi.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso perché la condotta sopra citata, insieme ai ripetuti episodi di minacce, persecuzioni e atti di violenza nei confronti della parte offesa (nei confronti dell’imputato, già condannato, si è reso in seguito necessario aggravare le misure cautelari), integrano senza ombra di dubbio il reato di stalking. Va precisato, peraltro, che l’utilizzo dei social network è particolarmente invasivo, a causa dell’innumerevole numero di utenti (anche malintenzionati) che possono visionare il profilo e mettersi in contatto.
I precedenti giurisprudenziali
La sentenza n. 36894/2015 è la terza decisione della Corte di Cassazione penale in materia di “cyberstalking”. La prima sentenza, che ha fatto da “apripista”, è la n. 32404 del 10.08.2010: in quell’occasione, l’imputato aveva trasmesso, tramite Facebook, un filmato che lo ritraeva durante un rapporto intimo con la vittima.
Il 24.06.2011 la Suprema Corte deposita la sentenza n. 25488, nella quale ribadisce che anche l’invio di continui messaggi di minacce su Facebook, unitamente alle altre condotte persecutorie, integra il reato di stalking.
Perché le sentenze sull’argomento che stiamo trattando sono così poche? Una motivazione potrebbe essere la circostanza che l’art. 612 bis c.p. prende in considerazione l’elemento soggettivo del danno psicologico causato nella vittima (la norma parla di “stato d’ansia o di paura”, nonché di “fondato timore per la propria incolumità” o di quella di congiunti o di persone con le quali la vittima ha un legame affettivo), e non l’elemento oggettivo della condotta in quanto tale.
Visti i numerosi episodi che si stanno verificando, tuttavia, sarebbe forse il caso che il legislatore rivedesse la norma del 2009, adeguandola alla nuova realtà.
Allora, cosa ne pensate?
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